Il suicidio di Monicelli: una fine disperatamente coerente per chi non è cristiano
- Ultimissime
- 01 Dic 2010
In questi giorni l’Italia è scossa dalla morte di Mario Monicelli all’età di 95 anni. Il grande regista, “padre” della commedia italiana ha scelto un vistoso metodo da disperati: si è buttato dal quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato. Immediatamente i laicisti radicali hanno strumentalizzato il povero Monicelli e -attraverso la leader Rita Bernardini- hanno dichiarato in Parlamento che «sarebbe il caso che la Camera avviasse almeno una riflessione sull’eutanasia». Varie critiche sono emerse subito dal PDL e da Gianfranco Rotondi che ha replicato: «Temo che si trasmetta un messaggio non di carità ma di ammiccamento alle scelte assolutamente non esemplari, nel senso che non debbono essere un esempio. Procurarsi la morte e rifiutare i funerali non significa laicità, ma rifiuto del mistero della morte e penso all’impatto che tutto ciò ha sui giovanissimi». Immediata la reazione anche di Paola Binetti: «Basta, per piacere, con spot a favore dell’eutanasia partendo da episodi di uomini disperati, perchè Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà». Stessa cosa la dicono i suoi amici più cari, Carlo Verdone e Mimmo Calopresti: «Era depresso e si sentiva solo». E’ la cultura laicista ad essere il vero motivo del suicidio. Una cultura che porta alla solitudine (è noto l’accanimento ateo contro la famiglia) e alla disperazione (“di-sperati”, senza “speranza”, come inneggia il materialismo ateo). Questo fatto ha mostrato dunque quanto radicalmente sia lontana la prospettiva cristiana da quella laica. Per la prima, la vita, il dolore e la sofferenza acquistano un valore assoluto, proprio perché avvicinano a Dio che per primo ne ha subito la drammaticità attraverso il Figlio. Questo porta ad esempio San Francesco a chiamare scandalisticamente la morte “sorella” e tanti ammalati a vivere la loro malattia terribile nella letizia del cuore. Per la cultura atea invece la vita non ha un valore in sè, è sopportabile provvisoriamente se le cose vanno bene, se si è sani e fortunati. Non c’è spazio per il dolore, la malattia e la sofferenza (stati che prima o poi toccano a tutti), che diventano un’enorme ingiustizia insensata (una doppia insensatezza oltre a quella di vivere), un’ennesima frustrazione da subire. L’atto di fede dell’ateo, crea così inevitabilmente un uomo profondamente disperato (cioè “che non attende nulla”, come diceva Pavese), che si autoconvince di essere masochisticamente nient’altro che un condannato a morte (circa 70 anni di pena per gli uomini e 85 per le donne), un “provvisoriamente” vivo. Per gli atei, ad un certo punto la vita diventa una malattia da curare con la morte, che diventa la “medicina”, la “guarigione”, meglio se “dolce”, come un antibiotico alla fragola. L’ateismo è disumano perché è contro la natura dell’uomo stesso, darwinisticamente parlando tendente alla sopravvivenza, alla vita.
Non è un caso che alcune persone vicine a Monicelli parlino di “gesto di coerenza con la sua vita”, confermando il fatto che un ateo, per essere davvero coerente, deve suicidarsi (ma non per questo va giustificato), mentre per il cristiano si parla invece di “incoerenza”. Questa comunque è proprio la “cultura della morte” e della “vita disperata” che cerca negli ultimi secoli di prendere il posto della visione cristiana. Non è un caso nemmeno che nel 2009 una ricerca del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Manitoba in Canada ha stabilito che gli atei si suicidano il doppio dei credenti (vedi qui), mentre vari studi dimostrano che anche la loro intera vita è vissuta mediamente in uno stato di malessere psico-fisico (potete trovarne molti nel nostro sito). I radicali dicono che la morte di Monicelli dovrebbe servire per discutere dell’eutanasia, in realtà noi pensiamo che serva più per prendere coscienza della frustrante e disperante mentalità dei profeti della “cultura della morte”.
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