Ecco come dalla ragione si arriva a Dio

MalinconiaNella nostra esperienza, che cosa significa che la ragione sia esigenza di infinito? Dove vediamo questa esigenza di infinito? La vediamo nel rapporto con la realtà.

Nel rapporto con la realtà -sia quando la realtà si manifesta a noi positivamente; sia, ancora di più ovviamente, quando la realtà si manifesta negativamente, quando ci viene incontro facendoci male – manca sempre qualcosa. Come dice la parola stessa -dal latino satis facere, fare abbastanza- il soddisfacimento è, appunto, abbastanza, non è mai tutto.

La percezione dell’infinito, per un uomo che abbia una sensibilità, nasce come malinconia. Scrive don Giussani in “Realtà e giovinezza. La sfida”: «Io, in quella prima liceo, nel canto di Tito Schipa avevo proprio percepito il brivido di qualche cosa che mancava; qualcosa che mancava non al canto bellissimo della romanza di Donizetti, ma alla mia vita: qualcosa che mancava e che non avrebbe trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta, da nessuna parta. C’è sempre un punto di fuga, c’è qualcosa che sfonda l’oggetto che afferriamo, per cui non lo prendiamo mai a sufficienza e per cui c’è sempre come un’intollerabile ingiustizia, che cerchiamo di celare a noi stessi, distraendoci. Il buttarsi nell’istinto è il modo più bieco di chiudersi a questa apertura che tutte le cose reclamano, cui tutte le cose spingono».

Don Giussani mi raccontava che, vivendo questa esperienza, aveva per la prima volta capito chi potesse essere veramente Dio. Era già in seminario e questa non è una notazione secondaria proprio perché la percezione di Dio non è un fenomeno intellettualistico, ma proviene da una “fame”, nel senso che capisce molto di più il valore del cibo l’affamato, piuttosto che l’esperto di cucina. Le cose si capiscono quando si va verso di esse con una tensione. E’ la malinconia della vita (viviamo al sabato, non la domenica); è la tristezza di Dostoevskij, quella tristezza che si prova nel rapporto non compiuto con la persona che si ama di più, perché io non sono capace, perché lei non è capace: questo è il sospiro. La ragione è esigenza di infinito e culmina nel sospiro.

Quando c’è un giudizio sulle cose; quando si vive; quando non si è distratti, quando non ci si butta nell’istinto; quando si mantiene il giudizio, cioè quando la ragione è presente, quando io sono presente: la caratteristica più umana della vita quotidiana è questo sospiro, la coscienza dell’incompiutezza, dell’attesa perenne che è la vita. Come diceva Cesare Pavese ne “Il Mestiere di vivere”: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?».

D’altra parte non si può attendere qualcosa che non c’è: se fosse così, se sentissimo che la nostra attesa è verso qualcosa che non c’è, saremmo presi dalla paura dell’ignoto. L’ignoto è il buio oltre il quale non c’è niente, il contrario del Mistero che, invece, è la manifestazione di ciò che c’è, anche se non siamo capaci di prenderlo pienamente. Come diceva Melanie Klein, uno psicoanalista che ha studiato l’insorgere della paranoia come fenomeno psicotico nei bambini, l’assenza diventa una presenza cattiva. Ma se guardiamo alla nostra esperienza, non è così: la nostra attesa non è paura. Il cuore arde nel petto, perché la promessa c’è nella realtà e bisogna stare a questa promessa, a questo presentimento. Qual è il senso della realtà? Il positivo che originalmente avverti, che pre-senti, o il negativo che ti schiaccia? Se fosse questo secondo, allora sarebbe inutile vivere; sarebbe inutile qualsiasi azione, qualsiasi pensiero. La vita non può che affermare la sua positività.

La ragione degna di questo nome è tensione all’infinito perché capisce che queste senso ultimamente sfugge; la fede cioè non è una specie di fortuna -beato te che ce l’hai- ma è una necessità.

Giancarlo Cesana
da “La ragione, esigenza di infinito” – I libri del Meeting (Mondadori Università 2007)

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13 commenti a Ecco come dalla ragione si arriva a Dio

  • Piero ha detto:

    Così come lo racconta l’autore non si direbbe che l’incompletezza dei rapporti si razionalizza con il rapporto con Dio. La paura dell’ignoto esiste e giustamente l’ignoto è il buio oltre il quale non c’è niente ma è proprio questo il motivo per cui molti affermano che l’uomo ha cercato di supplire a questa manchevolezza immaginandosi un ente trascendente autore della nostra stessa esistenza.

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    • Flavio ha detto:

      Affermare che oltre l’ignoto e il buio non c’è niente è una mera opzione personale, nulla ci porta a sostenerlo.

      Seconda questione: perché se Dio risponde al nostro bisogno di senso allora dev’essere un’invenzione umana? L’amore di tua moglie risponde al tuo bisogno di essere voluto bene, dunque è una tua immaginazione che tra te e tua moglie esiste l’amore?

      Terza questione: da dove arriva la paura dell’ignoto? E perché ci fa paura? Perché l’uomo ha bisogno di un senso? Ed infine: e se questa mancanza e questo bisogno di senso dell’uomo (grazie per non averlo negato) fosse proprio la griffe del Creatore perché l’uomo non si allontani troppo da Lui?

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      • Sophus Lie ha detto:

        Caro Flavio,
        proviamo a discutere senza preconcetti delle sue domande.

        1) Da dove arriva la paura dell’ignoto? E perché ci fa paura?
        Mi pare ragionevole pensare che una situazione ignota sia con altra probabilità generatrice di preoccupazione. In effetti se ci è ignota non abbiamo nessun controllo su di essa e dunque ci può ferire, uccidere o comunque porre in pericolo.
        Ad esempio: perché un uomo ha paura se in una stanza completamente buia? Probabilmente perché non vede cosa c’è e dunque ne percepisce un pericolo potenziale.

        2) Perché l’uomo ha bisogno di un senso?
        Risposta: perché dal punto di vista evoluzionistico la ricerca di causalità e di pattern nella realtà circostante si è rivelata vincente. Se una scimmia poco evoluta non è in grado di riconosce la ciclicità delle stagioni, ad esempio, non potrà mai avvantaggiarsi dei benefici che derivano dalla comprensione delle cause dei fenomeni naturali.

        3) E se questo bisogno di senso […] fosse proprio la griffe del Creatore […]?
        Certo, poterbbe essere. Però similmente: potrebbe la sete d’acqua essere un segno lasciatoci dal Creatore per ricordarci che non siamo autosufficienti? Tuttavia penso sarà d’accordo con me che la spiegazione scientifica del fatto, ovvero che la sete sia un vantaggio evoluzionistico in quanto riduce le probabilità che uno dimentichi di bere, e dunque muoia, è molto più semplice e naturale.
        Non credo ci sia bisogno di tirare dentro un Creatore per giustificare i nostri istinti, come la sete, la ricerca di pattern nelle nuvole, la ricerca di un senso della vita. L’evoluzione delle specie può fornire risposte estremamente approfondite e complete. Senza bisogno di Odino/Zeus/Gesù/Allah/Ganesha.

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        • Dario* ha detto:

          1) niente da eccepire

          2) Il fatto di essere in grado di riconoscere un senso non implica la ricerca del senso stesso. Io posso percepire il senso di qualcosa e non necessariamente sentire il bisogno di trovare quel senso

          3) L’evoluzione non può affatto fornire la risposta ad un sacco di cose, tanto per cominciare non può fornire una risposta al motivo dell’evoluzione stessa. Ovviamente alle domande a cui l’evoluzione non può rispondere però vi guardate bene dall’intervenire voi “scienziati” della domenica che sapete spiegare per filo e per segno perché i puntini delle i siano rotondi ma non cosa ci sia scritto in un testo

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        • Flavio ha detto:

          Prima di rispondere vorrei dire che è interessante osservare come si usi l’evoluzione per colmare ogni lacuna, è una sorta di dio delle lacune che va bene un po’ per tutto. In realtà quella che tu usi si chiama psicologia evoluzionista, ovvero il tentativo di spiegare il nostro comportamento estendendo la teoria di Darwin alla società e alla cultura umana. Ti consiglio perciò l’ultimo libro di Telmo Pievani, l’ennesimo neodarwinista che smonta completamente questo tipo di psicologia evoluzionista, le tue le chiama “imbarazzanti spiegazioni evolutive”: http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2014/05/30SIB5082.PDF
          Preso atto che non si può usare il dio delle lacune per rispondere a questo tipo di domande, vediamo di entrare nel merito:

          1) Hai ben spiegato perché dovrebbe esserci paura dell’ignoto in noi, eppure in me non è così. L’ignoto oltre la morte non fa paura, la nostra è un’attesa piuttosto perché nella realtà percepiamo una Presenza, una promessa. La tua obiezione classica è: allora vi siete inventati questa Presenza per non aver paura. E io ti rispondo nuovamente: perché quel che risponde dev’essere inventato? Se l’amore di tua moglie risponde al tuo bisogno di affetto è una tua invenzione che fra voi due c’è amore?

          2) Oltre a ricordarti di non usare il dio delle lacune (psicologia evoluzionista) per spiegare tutto ciò a cui non sai rispondere, aggiungo la mia risposta a Dario: se anche volessimo usare la psicologia evoluzionista per spiegare la ricerca del senso della vita sarebbe più vantaggioso per l’uomo non cercarlo affatto in quanto esso è inafferrabile per chiunque. I credenti infatti possono percepirlo ma la loro non è la fine della ricerca, è semmai l’inizio di un cammino più certo: sappiamo la direzione ma ancora non la strada. Evolutivamente è molto più avvantaggiato chi non ha bisogno dell’inquietudine della disperata ricerca, può concentrarsi meglio sulle cose che ha da fare e soddisfare i suoi istinti senza la preoccupazione che anche se li soddisfa poi avrà sempre “bisogno di altro”. Ti ricordo infine che il tuo esempio sulla ciclicità delle stagioni è fuori luogo: si tratta di come funziona la realtà e non si può paragonare a chi cerca come è nata la realtà (atteggiamento anti-evoluzionista).

          3) Anche qui ti confondi: paragoni un bisogno fisiologico (la sete) con un bisogno esistenziale (ricerca di Dio), mischiando i campi. Prendendo per buono comunque il tuo esempio, ti ricordo che mentre l’acqua soddisfa la sete, il bisogno dell’infinito (di Dio) è un’attesa che non verrà mai soddisfatta (in questa vita). Per questo è, ripeto, uno svantaggio evolutivo per la maggior parte degli uomini, per altri -minoranza assoluta- l’inquietudine invece si trasforma in attesa ma nemmeno per loro la ricerca è terminata, può solo approfondirsi la certezza della loro percezione. Tu però mi insegni che la selezione naturale dovrebbe eliminare i soggetti con svantaggio evolutivo…eppure.

          Per la tua ultima riflessione: è sbagliato paragonare i bisogni fisiologici (la sete), con i bisogni esistenziali (ricerca del senso della vita). Mentre con i primi non si può fare a meno per sopravvivere, senza i secondi è possibile comunque sopravvivere. Potendo farne a meno, dunque, è molto più vantaggioso dal punto di vista evolutivo non porsi domande a cui difficilmente si troverà risposta soddisfacente in tutto e per tutto. Tuttavia ribadisco che quella che tu usi non è la teoria dell’evoluzione ma la psicologia evoluzionista ed essa andrebbe utilizzata in modo serio e non in modo metafisico come fai tu per colmare le tue lacune, sono scappatoie per non affrontare la realtà e per convincerci che non ci sia bisogno di Dio. Come vedi il tuo è un comportamento complesso e anti-evolutivo: strumentalizzare la scienza per illudersi di riuscire a negare Dio. Perché questa fatica? Molto meglio non avere dentro alcun bisogno di Dio, no? E’ svantaggioso invece che noi abbiamo questo bisogno e tu sei la prima dimostrazione del perché tutti i tuoi ragionamenti metafisici (dove al posto di un dio piazzi la psicologia evoluzionista) siano sbagliati.

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          • Dario* ha detto:

            Hai risposto benissimo Flavio ma per pignoleria mi permetto di fare una precisazione al punto 2:
            Se è vero che l’uomo può conoscere la direzione ma non la strada è anche vero che il cristiano conosce più o meno bene anche la strada, non perché questa fosse umanamente raggiungibile quanto perché la Via stessa ha scelto di farsi trovare dall’uomo =)

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            • Flavio ha detto:

              Grazie per la precisazione, fondamentale! E’ Gesù che ci ha indicato la direzione, per questo ho specificato appositamente direzione: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Sappiamo che la direzione è verso Lui, la strada invece (i passi che ogni giorno dobbiamo compiere per non perdere la direzione) è ancora misteriosa…altrimenti sarebbe già tutto scritto. Sono riuscito meglio a far capire cosa intendevo?

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          • Claudio ha detto:

            Non c’è altro da aggiungere. Letto d’un fiato. Complimenti per la risposta Flavio, io ormai non riesco più a rispondere a certo riduzionismo con la lucidità e pacatezza tua.

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  • Noemi ha detto:

    È molto difficile negare che ci sia Dio, affidando la complessità della creazione, e dell’uomo in particolare, al “Caso” ( che poi, volendo, è un altro nome per indicare Dio quando non lo si vuole tirare in ballo). La ragione, prima o poi si scontra con questo problema e solo il non volerlo affrontare, per comodità, interesse o altro, ci fa negare l’esistenza di Dio.
    Meno mi convincono i giochini dialettici sull’ignoto e il mistero che, secondo me, lasciano un po’ il tempo che trovano visto che li capiscono solo gli “addetti ai lavori”

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  • Dario* ha detto:

    Davvero un bell’articolo, un po’ contorto e non troppo chiaro nella parte dell’ignoto ma l’ho trovato davvero profondo in molti passaggi e specialmente nella conclusione. Grazie di averlo pubblicato

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  • beppino ha detto:

    L’Uomo sta percorrendo una strada, definita quadrimensionalmente dalla scienza ed in genere via via “spiegata” dalla stessa scienza finché si intravvede l’orizzonte.
    La scienza ci insegna che quando una cosa non si capisce si deve rinviare la conoscenza ad uno step successivo che, prima o dopo, probabilmente arriverà. La scienza quindi non spiega, la scienza può solo metterci in attesa.
    All’interno di questa realtà il non credente nasce, vive e muore; per il non credente la strada c’é, bisogna prenderne atto, bisogna coglierne gli aspetti migliori e disconoscere gli aspetti peggiori. Tanto basta per andare avanti, come del resto fanno tutte le altre forme biologiche che ci accompagnano lungo la strada.
    Di converso il credente non si accontenta, perché intuisce che se anche un giorno l’orizzonte si concretizzasse in qualcosa che spiega il tutto, la spiegazione del tutto non potrebbe non contenere la giustificazione del perché della stessa strada e delle relative finalità. E se c’é il perché e la corrispondente finalità (effetto) non può mancare il soggetto giustificatore del perché e della finalità (causa).
    Ma tutti gli indicatori finiti che l’Uomo analizza, studia, percepisce, cozzano con l’intuizione della sussistenza di un qualcosa (infinito) che non ci permetterà mai di arrivare all’orizzonte finale (fine della strada).
    La scienza, ad esempio, ci dimostra che la vita biologica é una evento talmente raro e la cui probabilità di accadimento é un numero talmente piccolo il cui inverso non riuscirebbe comunque a ricomprendere la numerosità dei posti sparsi nell’Universo conosciuto potenzialmente in grado di fornire la stessa vita biologica.
    E l’Universo conosciuto é talmente grande per cui non é possibile non prendere ineluttabilmente atto che la storia dell’Uomo, per quando lunga possa essere, non potrà mai permettere all’Uomo stesso di varcare il confine della parte nota percepibile.
    Probabilmente siamo soli nell’universo, sicuramente siamo infinitesimi rispetto a ciò che ci circonda, ineluttabilmente non abbiamo altra possibilità se non quella di applicare il libero arbitrio che comunque ci contraddistingue.
    Sarebbe da dire: nella strada ad ognuno la sua strada e … fine della questione.
    Ma c’é sempre di mezzo questo “intrigante” libero arbitrio…

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